La fede di uno scettico
Non credo di essere nato già balbuziente. Non so nemmeno se ci si possa veramente nascere. So solo che non ricordo esattamente quando tutto sia iniziato. E’ anche inutile interrogarsi su quale sia stato il motivo, se l’operazione alle adenoidi a quattro anni, la rincorsa di un uomo che voleva sgridarmi di qualcosa che avevo fatto, o altro di cui non conservo traccia se non nei vicoli burrascosi della mia mente sconosciuta.
Ogni balbuziente sa che difficile è saperlo con certezza. Ma non serve, ora. E non serviva nemmeno quando, allorché ci si interrogava dal di dentro – o Dio -, più difficile e dolorosa era la domanda. Semmai importante era capire perché fosse successo proprio a me e non ad altri. Ho anche sempre detto che mi poteva capitare di peggio. Ho anche sempre detto – però – che mi poteva capitare di meglio. Ogni balbuziente lo fa. Ho sempre maledetto il destino ingrato che con me si era divertito a punzicarmi, ma anche ringraziatolo per le doti umane e sensitive che mi aveva donato.
Come è evidente, è la contraddizione dei sentimenti e dei giudizi che ha sempre caratterizzato la mia indole, un po’ solitaria e molto, molto, comunitaria. E intanto gli anni passavano e il mio carattere si modellava sulla base delle condizioni del corpo e dei suoi limiti. Come, del resto, per ogni buon balbuziente che si rispetti. Non sono mai stato molto socievole, ma chi può dire come sarei stato se diverso fosse stato anche il mio punto di partenza. Ogni balbuziente se lo chiede.
Oggi ho trentun’ anni. Molta strada ho lasciato dietro di me, forse molta ancora davanti. Penso di essere maturo abbastanza da capire di essere ancora immaturo se paragonato alla vita di mio padre a quell’età. Gli esperti dicono che oggi i giovani adulti sono in crescita. Mai sentiti gli esperti dire che fine faranno questi giovani adulti. Se metteranno al mondo dei giovani-infanti o se un giorno diventeranno dei giovani-anziani o addirittura uomini. Tutto diverso per i balbuzienti che oltre ai problemi che anche gli altri dicono di avere, hanno anche il problema di dirlo.
La scuola, ecco la scuola, e le ragazze, sì le ragazze. Quando ciò che conta nella vita è quello che puoi ottenere quando difficile è ottenerlo, la scuola e le ragazze sono il tuo metro di paragone. La scuola, nessun problema, ero un quasi secchione, ma che farsene quando ciò che conta è la vita con gli amici, normali, forse non del tutto, ma normali nel parlare e nell’essere spigliati ad ogni momento opportuno. Io, pensavo, avrei potuto farlo meglio. Osservavo i tempi, i movimenti, le entrate e le uscite, le battute, le “imbeccate”. Con un unico problema, io potevo solo osservarle. Analizzarle sì, e anche molto bene, ma non ripeterle. Sapevo farlo bene come meglio non poteva uno che balbuziente non lo fosse mai stato. Forse è anche per questo che ho intrapreso gli studi di Sociologia.
Oggi continuo a studiare Sociologia. Ho anche conseguito il Dottorato di Ricerca, con successo, come dicono le persone che mi vogliono bene, soprattutto il mio “maestro”. Rimaneva però sempre il paradosso. Devo ringraziare il destino per queste mie qualità, o devo comunque tenerlo a bada per ciò che mi ha tolto. E poi, devo per forza pormi il problema di ringraziarlo, in fin dei conti tutto quello che ho ottenuto, lo ho ottenuto con le sole forze della mia volontà e con l’aiuto delle persone che mi vogliono bene, specialmente V. (e la mia famiglia, è chiaro). E’ per questo, allora, che la fede in Dio non è mai stata la mia forza. Nemmeno la fede nelle ideologie. Solo quella nei confronti degli uomini. Della loro bontà e della loro cattiveria. Forse la balbuzie ha contribuito a formare questo mio carattere di scettico impenitente, ma voglioso di credere nella bontà degli uomini. Non so se questo sia lo stesso per gli altri balbuzienti. Sta di fatto che la balbuzie non l’ho mai accettata e sono sempre andato avanti, dritto, forse schivando le conversazioni faticose, ma dritto verso ciò che mi piaceva fare. Alla faccia della balbuzie. Ma non era così, e io lo sapevo. La balbuzie non lascia scampo e, nei momenti meno opportuni, eccola lì, come la fredda morte, a chiederti di pagare il pedaggio. Che fare? Quando, parlando davanti a 500 studenti desiderosi di pendere dalle mie parole, ho cercato di fare finta che Essa non esistesse, eccola lì a ricordarti che tutto ha un limite. Che da solo non ce la puoi fare. Proprio io che ho fatto della mia incertezza la sfida per eccellenza.
Mi ricordo due anni fa. V. mi disse: «ho visto uno che parlava». Ho telefonato, forse più che altro in ossequio di una voce che ho sempre considerato autorevole per me. Scettico lo ero, lo sono ancora per un certo verso. Ho chiamato per calmare la mia ansia inquieta, sempre convinto che avrei potuto ancora farcela da solo. Una cosa mi colpì di quell’incontro. Anzi due. Una è Peppe (poi ho saputo il suo nome), un balbuziente che parlava di fronte a non so quante persone come me, o con i genitori. Un fenomeno. Ma soprattutto Pippo (anche di lui ho saputo dopo), che faceva l’appello delle persone presenti. L’appello! E’ mai possibile che un balbuziente faccia l’appello. Semmai conta e si rende conto ad occhio delle assenze. No lui faceva l’appello. All’istante ho pensato che fosse uno normale, sai, un amico di Peppe, portato apposta per fare l’appello. Ho indagato. Eravamo in una sala di un albergo romano, vicino alla stazione Termini. Alla fine dell’incontro, quando il caos nasconde tutti i difetti, glielo ho chiesto. Lui ha sconfermato la mia falsa illusione.
Il numero di telefono di Peppe l’ho sempre tenuto gelosamente nel mio portafogli. Due anni. Convinto ancora che potessi ancora fregarla, l’infingarda, ma sempre davanti a me l’immagine di quel siciliano, che, cavolo!, di fegato aveva dimostrato di averne. Se mi sono deciso di seguire il corso di Peppe, dopo due lunghi anni, con una permanenza di 9 mesi in Inghilterra, un titolo di Dottore e una nuova, bella, ragazza, nel frattempo intercorsi, e se oggi posso dire di avere un problema in meno a cui pensare, forse devo ringraziare quell’irriverente catanese che si è preso gioco della sua e della mia balbuzie. Certo anche Peppe non scherza. Dopo due anni aveva ancora il mio numero di telefono. Mi ha chiamato avvertendomi che sarebbe venuto a fare il corso a Roma. Io l’ho richiamato confermando che sarei andato alla presentazione. Non so dire con certezza se lui abbia detto le stesse cose di due anni prima, non ha importanza. Parlava di un metronomo. Un oggetto infallibile per la balbuzie.
Strano, adesso che ci penso, non ho mai pensato che potesse essere come un venditore di pentole alla televisione. Un metronomo, che sciocchezza. Sta di fatto che io non partecipai al corso di Giugno perché impossibilitato a farlo. L’ho fatto a Settembre, le prime due settimane. La configurazione degli astri era propizia. Nessun impegno pressante in vista. Alla fine di agosto Peppe mi aveva ancora richiamato. Che testardo. Io sono andato solo per mettermi nella lista dei partecipanti al corso. Non ho neanche seguito la presentazione, ormai inutile dopo aver sentito Pippo fare l’appello una volta. Mi sono iscritto e il martedì ho iniziato.
Via Appia 123. Un appartamento da giovani scapoli, un po’ trasandato e poco curato. Non ci ho fatto caso. O almeno non l’ho collegato alla bontà del corso da seguire (ci ho pensato solo molto tempo dopo). Mi sono fidato di Peppe e di quel benedetto appello. Io, uno scettico impenitente, che studia la fiducia come tema di analisi sociologica; che la pensa come una risorsa, ma che è convinto anche che sia una delle cose più difficili da offrire. Mi sono fidato di Peppe. Di un venditore di metronomi. Sarà, ma io ho sempre avuto una sensibilità per le persone giuste di cuore. E il numero di telefono custodito gelosamente nel mio portafogli era la prova di questo mio giudizio, poco scientifico, ma molto animale.
Il primo giorno, il panico. Molti erano i giovani, alcuni giovanissimi, persino un bambino di 6 anni, Mattia, ospite di Peppe per una “riveduta”. Mai però, dico mai, ho pensato di ritirarmi per quella che ormai avevo capito essere vergogna mista ad orgoglio. Avevo troppo bisogno di Peppe. E’ stato un grande piacere scoprire piano piano tutti i componenti del corso, 13 persone in tutto. Io solo di Roma. Abruzzesi, pugliesi, calabresi, lombardi, sardi e laziali sparsi per le province della mia regione. Due dormivano addirittura in quell’appartamento, ospiti di Peppe.
Più che un luogo di studio, quella era una comune. La severità dell’inizio presto ha lasciato il posto ad una dolce convivenza di persone che condividevano un problema comune, non più vergognosi di mostrarsi agli altri nei momenti in cui i versacci dei nostri esercizi erano più ridicoli della nostra stessa paura di confrontarci a viso aperto. Ed altri continuamente arrivavano. Altri ragazzi che, poco attivi e convinti di quello che avevano fatto, erano ospitati in quella comune per il puro fine di riportarli sulla giusta direzione. Luca e Antonio da Napoli, Paolo da Bari, Andrea da Pescara, tutti pronti a riprendere da dove avevano deciso di smettere, o anche solo per salutare. E poi i collaboratori. Ogni giorno la casa era piena di giovani ex-balbuzienti, ora fuori e pronti a dare aiuto ad altri come loro erano stati un tempo. In una sorta di associazione di mutuo aiuto tipo gli Alcolisti Anonimi.
Noi, i Balbuzienti Anonimi. Alessandro, Cristian, Luca, Ennio, a parlare di tutto, con il metronomo, senza metronomo, dimmi cosa hai fatto questa mattina, e ieri sera, e che lavoro fai, come passi la giornata. Sempre a tener d’occhio le aperture delle vocali, la erre dopo consonante, e parti con il soffio, anzi senza, non serve più, ma almeno fai la prima lunga. E’ forse per questo che alla fine c’è scappata la pizza. Era il minimo. Anche qualche lacrima a dir il vero, e non era certo per i soldi che avevamo sborsato. Io in quei giorni lavoravo la mattina. Il corso era alle quattro del pomeriggio. All’inizio arrivavo puntuale, come il mio solito. Ho finito per essere ospite fisso a pranzo e a cena. Era per fare esercizio. Per parlare con le giuste aperture delle vocali. Ma un po’ anche perché mi piaceva stare con Pippo, Fabio, Luca.
Il corso non ha mai avuto la pretesa di essere qualcosa di serioso. In fin dei conti nasceva dalla dolorosa esperienza di un depresso cronico balbuziente. Ma proprio per questo più vicino a me, a Giovanni ad Ettore. Più vicino a coloro che condividevano, oltre ad un problema, tutta una serie di conseguenze. E di questo ce ne siamo accorti subito. Peppe ha elencato con una maestria, che caratterizza la sua pungente intelligenza, tutto ciò che noi già sapevamo, che condividevamo, e che doloroso era ricordare. Anzi, anche qualcosa di più. E qui che ho scoperto una cosa di cui mi sono meravigliato. Che il mio vizio di parlare più velocemente del mio pensiero non è un dato caratteriale, tipico di me e di chissà quale e quante altre persone, ma un vizio del balbuziente. Un vizio che spinge coloro che zagagliano a sputare più frettolosamente possibile quello che vogliono dire senza troppo preoccuparsi di come lo devono dire.
Ora, a due anni dal corso, ne sono fuori. Sì, ne sono fuori. Non sembra vero, ma le cose funzionano. Non chiedetemi come sia possibile. Io stesso non lo so. Me lo chiedo spesso, ma, in fin dei conti, chi se ne frega. Nulla è cambiato rispetto ai miei progetti di qualche anno fa. Però tutto ora è più facile.